Il 2016 è un anno particolarmente significativo per le industrie sementiere. Sono in corso, proprio in queste settimane, fusioni tra aziende che già erano tra le più influenti del settore. ChemChina, gigante cinese del mercato agro-chimico, ha messo sul piatto 43 miliardi di dollari per comprarsi la svizzera Syngenta. Al tempo in cui scriviamo l’affare è ancora in corso, in attesa delle approvazioni degli antitrust di mezzo mondo. DowChemicals e DuPont si sono fuse, creando un’unica azienda, la DowDuPont. E poi c’è il caso Monsanto. L’azienda americana ha provato per mesi a comprare Syngenta, prima che lo facesse ChemChina. Dopo l’ennesimo rifiuto si è arresa ed è diventata a sua volta preda della tedesca Bayer che a settembre l’ha convinta con un’offerta da ben 66 miliardi di dollari, la più alta mai registrata in questo settore. Anche qui l’affare è lontano dal dirsi concluso e la parola è all’antitrust.
Negli anni ‘80 c’erano migliaia di aziende sementiere indipendenti. Molte con una storia che risaliva perfino alla fine dell’Ottocento o ai primi anni del Novecento, intrecciata con la tradizione agricola dei luoghi dove operavano, associate da generazioni a una singola famiglia proprietaria o a una cooperativa di agricoltori. Oggi gran parte di queste non ci sono più. Talvolta sopravvivono i marchi, utilizzati per dare almeno una parvenza di legame con il territorio. Ma il vero controllo è nelle mani di pochi attori, perlopiù grandi multinazionali nate in anni più recenti e che vengono dal settore chimico, produttrici dunque anche dei fertilizzanti e pesticidi usati in agricoltura. Promotrici di un modello unico di sviluppo agricolo, incentrato su grandi produzioni e su una filiera agricola che è, in gran parte, simile a quella industriale: specializzazione produttiva, prodotti uniformi, alte rese, grande distribuzione, efficienza del mercato.
Con l’indiscutibile vantaggio di fornire cibo a milioni di persone sempre più concentrate in aree urbane e poco interessate a coltivare la terra. Ma con l’altrettanto indiscutibile effetto di ridurre sempre più lo spazio lasciato alle colture locali, alla diversità di prodotti, alla produzione di piccola taglia, ai mercati di prossimità.
Che pure stanno conoscendo, in tempi recenti, un momento di grande vivacità. Ma che devono accontentarsi di agire ai margini e spesso nelle pieghe di una legislazione tarata sui processi e gli interessi della filiera di stampo agro-industriale.
«In Sudafrica, di fatto il mio modello di business al momento è illegale. Posso lavorare solo grazie a una deroga della legge». Sean Freeman è cresciuto a Pretoria. È un ingegnere che lavorava nel mercato delle telecomunicazioni. Dal 2009, quasi per caso, ha iniziato a produrre e rivendere sementi tradizionali e oggi, assieme alla moglie Nicola, gestisce Livingseeds, una piccola azienda di successo a Henley on Klip, non lontano da Johannesburg, dove andiamo a trovarlo in giugno, alla conclusione della stagione di raccolta. Impiega otto persone a tempo pieno e alcuni collaboratori nella stagione del raccolto e vende esclusivamente online più di 600 varietà di sementi in tutto il paese a moltissimi piccoli agricoltori e orticoltori.
Nella fattoria di Freeman la stagione del raccolto inizia verso novembre. Prima i fagioli, poi i pomodori e, verso la fine di maggio, peperoni e peperoncini. I semi vengono raccolti, puliti e seccati prima di essere impacchettati e poi spediti in tutto il paese. Diversamente dalla maggior parte dei semi che si trovano in commercio, che solitamente sono ibridi, quelli di Sean Freeman generano piante a impollinazione aperta. Le sementi ibride sono prodotte dall’incrocio di due o più varietà con lo specifico obiettivo di ottenere una coltura ad alta resa, che risponde a caratteristiche produttive ben precise. La semente che deriva da un ibrido, però, tende a dare risultati sempre meno soddisfacenti negli anni successivi. Ecco perché l’agricoltore, se vuole mantenere certi standard produttivi, deve comprare nuovi semi di anno in anno. Nulla a che vedere con la vessata questione del seme Terminator e nemmeno con gli Ogm. Da decenni, il mercato delle sementi utilizza gli ibridi sia per garantire uniformità di risultati sia per vendere sempre più semi di anno in anno e remunerare così le aziende che li producono.
Quando usano piante a impollinazione aperta, gli agricoltori non hanno la garanzia di uniformità ma possono selezionare e conservare le sementi migliori per le semine successive.
Come fanno appunto i clienti di Freeman. Il suo successo commerciale dimostra comunque che c’è una grande richiesta di questo tipo di semi e l’unico suo rammarico è che la competizione in questo campo sia ancora molto scarsa. «La competizione è stimolante e ci darebbe la spinta a migliorare sempre», ci dice sorridendo. «Ma i piccoli agricoltori sudafricani devono affrontare due ordini di problemi connessi tra loro. Il primo è che spesso sono troppo poveri e faticano a investire in un progetto che generi valore aggiunto. Il secondo è che le leggi sementiere non li sostengono affatto e rendono la loro vita molto più difficile
Anna Molala
In queste condizioni ci vogliono molta tenacia e una personalità particolare per riuscire a mettere in pista un progetto di successo. Un esempio straordinario lo incontriamo nella piccola cittadina di Mankweng, nel Capricorn District, a nord est di Johannesburg. Qui Ma Anna Molala coltiva un ampio orto e un piccolo vivaio. Grazie al suo lavoro incessante di formazione e sostegno della comunità sono nati altri 147 orti che non solo hanno reso autosufficienti molte famiglie e più di 1000 persone, ma che rappresentano anche una fonte di reddito dignitoso perché i prodotti vengono venduti sui mercati locali della zona.
Ma Molala e la sua amica Maria Sebopa ci spiegano, mentre camminiamo da un orto all’altro, che il loro problema principale è la scarsità d’acqua, risolta solo in parte grazie all’uso di tecniche di permacultura. «La coltivazione non solo ci garantisce il cibo, ma anche le sementi per l’anno successivo», ci dice orgogliosamente mentre ci mostra la sua preziosa collezione di più di 30 varietà di semi diversi.
Le storie africane che incontriamo non sono troppo diverse da quelle che si trovano in altre zone rurali povere del mondo. Come quella che ci viene raccontata a ben 12mila km da Johannesburg, nel Sulcis iglesiente, in Sardegna, dove al tumultuoso sviluppo minerario concluso negli anni ‘70 hanno fatto seguito l’abbandono e la perdita di opportunità lavorative.
In questa regione povera della Sardegna la vita è molto lenta e le possibilità di costruire imprese di successo sembrano scarse. Qui, Teresa Piras, una ex insegnante, e la sua associazione Domusamigas animata soprattutto da donne, stanno cercando di aprire la via a progetti innovativi partendo dalle risorse agricole tradizionali. Ai primi passi però si sono scontrate con un problema molto serio: le varietà locali, di cereali e di frutti, non sono più coltivate da tempo e i semi sono sostanzialmente spariti. Senza darsi per vinte, Piras e le altre hanno coinvolto istituzioni locali e perfino l’Università di Sassari e il CNR riuscendo, un po’ alla volta, a ricostituire una collezione autoctona che, come vedremo, sta dando molte soddisfazioni.